American Made – Recensione
La faccia da schiaffi, il rock e roll e tanti tanti soldi: sono i tre ingredienti che hanno permesso alla cultura Usa di conquistare il mondo, una ricetta illustrata alla perfezione da “American Made” (deprecabile titolo italiano: “Barry Seal, una storia americana”), la pellicola che riporta sullo schermo Tom Cruise con Doug Liman come regista (coppia già rodata in “Edge of Tomorrow”).
La faccia da schiaffi è quella di Tom Cruise, che resta sullo schermo – con qualche artificio e l’estetica delle videocassette del periodo – dal primo all’ultimo minuto: tra Cruise e gli aeroplani il feeling è sempre stato parecchio (da “Top Gun” fino al recente “Mission Impossible Rogue Nation”), una relazione confermata anche per questa prova, in cui interpreta un pilota di linea che viene “agganciato” dalla Cia per fare qualche “lavoretto” sporco.
Il rock e roll non è solo quello della colonna sonora, che si spalma in adeguata armonia con la storia, sono proprio le scelte del protagonista a farne una rock star senza palco: nelle sue intenzioni il tour e la carriera sarebbero inclini più ad un’oculata gestione sul modello dei Rolling Stones, che all’autodistruzione dei Sex Pistols.
Il denaro è l’ultimo ingrediente: tanto, maledetto e addirittura troppo. Quando i lavoretti iniziano a diventare sempre più impegnativi e sempre più sporchi, Barry prova ad arrotondare grazie ai legami e agli interessi in comune tra i servizi segreti americani, i guerriglieri anticomunisti in Nicaragua e i narcos colombiani. Intrecci che vedono entrare in gioco il dittatore di Panama “Faccia d’Ananas” Noriega, il cartello di Medellin e Pablo Escobar, Ronald Reagan e lo scandalo Iran Contras. Elementi che messi tutti insieme avrebbero potuto dare vita – in Italia – a qualche sfibrante fiction, drammatica e con un “imprescindibile messaggio morale”, che invece (e per fortuna) grazie alla cura Hollywoodiana riesce a strappare più di un sorriso, senza nascondere la realtà.
Paolo Giannace