Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Recensione
Pungi come un’ape, danza come una farfalla, magari come quella farfalla che batte le ali a Tokyo e fa arrivare un uragano a Ebbing, Missouri. Un posto di provincia, dove una madre farà di tutto per scoprire chi ha stuprato e ucciso sua figlia, mettendo in piazza (o meglio su strada) tutta la sua rabbia. Tre enormi cartelloni pubblicitari con dei manifesti su una strada secondaria diventano uno schiaffo in piena faccia al moralismo di una piccola cittadina, tre manifesti che daranno il via a una catena di eventi “coheniana”, per ambientazione, trattamento della storia e caratterizzazione dei personaggi.
Uno dei punti di forza di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” è proprio nella completa padronanza in scena dei protagonisti: una volta avviata la “macchina film”, difficile scegliere chi la faccia camminare meglio, proprio come nei meccanismi meglio funzionanti ogni rotella ha una sua funzione imprescindibile, con Frances McDormand, Woody Harrelson e Sam Rockwell che fanno da ingranaggi principali. Un meccanismo che funziona anche quando uno dei personaggi principali sceglie di lasciare la scena, anche se una sua presenza “fantasmatica” contribuirà in maniera determinante all’evoluzione della storia.
In molti hanno avuto difficoltà a mettere un etichetta a questo film: una black comedy dai dialoghi taglienti, un thriller, un giallo o un western post moderno? Niente di tutto questo, il risultato del mix tra generi diversi porta sullo schermo qualcosa che va ben oltre la somma delle parti, e quindi tornando alla classica domanda, vale il prezzo del biglietto? La risposta è un sì formato 6 metri per 3, più o meno della grandezza dei manifesti. Nessuna etichetta di comodo riesce a stare appiccicata a questa pellicola.
Una difficoltà di stare in una “scatola” preconfezionata che ricorda quanto raccontato in “Manchester by the sea”: si ride e si piange, ci si commuove e ci si incazza, si provano paura e voglia di riscatto, un distillato di vita immerso in una storia verosimile, dove nessuno può dire di essere completamente buono (ma qualcuno è davvero un autentico pezzo di merda).
PS
Piccola impressione personale: non ho visto i trailer nei cinema, ma credo che – a dispetto della difficoltà di “inscatolamento” del film in un genere preciso – abbiano puntato molto sulle parti “comiche” e sulle parolacce, forse per questo in sala più volte sono scattate risate che avrebbero avuto più senso in una pellicola di Checco Zalone, con tutto il dovuto rispetto per il comico pugliese.
Kung Paolon