A Private War – Recensione
Dare una testimonianza di quello che sta succedendo in un posto, fare in modo che qualcun altro leggendo si interessi a quella vicenda, a quella guerra nello stesso modo in cui la stai raccontando, mischiando cronaca e scrittura, in una bozza di “Storia”.
E’ questo il compito di un corrispondente di guerra secondo Marie Colvin, giornalista del Sunday Times uccisa in Siria nel 2012, come racconta lei stessa in una intervista – “è difficile, sembra quasi che mi stia scrivendo il necrologio da sola”, dice nel video – la stessa intervista che viene utilizzata come punto di partenza e di arrivo in “A Private War”, il film di Matthew Heineman con Rosamund Pike, Jamie Dornan e Stanley Tucci, nelle sale italiane in questi giorni.
Un film difficile e duro, non esente da critiche – ancora nell’intervista caricata sul “tubo” si invita a essere critici sulla rappresentazione hollywoodiana di Colvin, ridotta a “sacrificabile oggetto di profitto” – critiche severe, ma non del tutto a vuoto, visto il tema e la persona di cui si tratta: un rischio simile – ma non identico – lo hanno corso tutti i film che hanno messo al centro personaggi iconici, reali e realmente “larger than life”, è lo stesso problema che si avverte nei prodotti, seppure validi, che hanno provato a raccontare Jim Morrison, George Best, Ernesto Guevara.
Impossibile rendere con suoni e luci quello che è fatto di carne, sudore, sangue e lacrime, “la facilità con cui il metallo squarcia la carne”. Impossibile – ma non necessariamente irrispettoso – riportare tutto questo su ciò che alla fine è un prodotto culturale. Un film in cui la violenza, i segni e le ferite sulla carne non sono mai mostrati direttamente, vengono comunque fuori a poco a poco, come se fossero già presenti sotto pelle, come i resti che vengono fuori da una fossa comune dimenticata nel deserto.
Il vantaggio è che con film del genere si spinga lo spettatore a volerne di più, a cercare di capire più in profondità una vicenda che interroga su più livelli: il ruolo del giornalismo (in un periodo in cui la categoria viene indiscriminatamente messa all’indice), il ruolo delle “democrazie” occidentali nel foraggiare tiranni e guerre, la lotta contro il potere e il costo in vite innocenti che questo comporta.
“Tu sei lì per vedere quello che noi non abbiamo il coraggio di vedere con i nostri occhi”, urla a Marie Colvin il direttore del giornale (intepretatao da Tom Hollander) in uno dei numerosi conflitti con la reporter, non per spingerla a intraprendere una nuova e rischiosa missione, quanto per capire un ruolo che resta comunque necessario, la testimonianza di quello che accade a migliaia di chilometri di distanza anche per le responsabilità del proprio governo.
Dallo Sri Lanka all’Afghanistan, dalla guerra in Iraq alle rivolte in Libia, fino al conflitto che ancora oggi continua in Siria, Marie Colvin ha cercato sempre di andare oltre la narrazione “embedded”, quella funzionale ai comandi militari – anche se forse non del tutto rispetto a strutture e dispositivi di potere più pervasivi – forse questo è il miglior seme che questo film riesce a piantare nelle coscienze.
Paolo Giannace