Joker – Recensione
“E’ una mia impressione o stanno diventando tutti pazzi?”: la classica domanda che potrebbe farsi il tizio della barzelletta contromano in autostrada, ma se a un certo punto il numero di gente che va contromano aumenta a dismisura, qual è la direzione giusta? Ne esiste una per chi finisce in una spirale di emarginazione? Parla anche di questo Joker, il film “stand alone”, con Joaquin Phoenix continua a fare il catzo che gli pare con faccia, corpo, espressioni, risate sgangherate, sopracciglia e altri peli superflui. Un racconto al fuori delle “continuity” dei fumetti di Batman e delle trasposizioni su schermo, un racconto che dà vita a un vero e proprio inno alla rivolta, lo fa dalla posizione più scomoda possibile, calandoci in un inferno di umiliazioni continue.
Uno dei grandi meriti del film è di mettere in luce un nervo scopertissimo della società occidentale (statunitense in particolare): come e da dove nascono i “malati di mente”, quelli che a un certo punto partono di capoccia e sparano? Chi crea questi “mostri”, chi gli mette in mano le armi con cui spargono i frutti della rabbia in giro per le strade?
Inutile fare paragoni con altre personificazioni cinematografiche passate, il suo Joker è un Sid Vicious più lucido e spietato, un Bill Hicks tornato dall’inferno. Arthur Fleck-Joker è un reietto che si purifica e si esprime in maniera chiara con il ballo e il tai chi, capace di sovvertire le carte che la vita gli ha dato, è un capro espiatorio perfetto, che dal fondo dell’abisso si mette alla testa della disperazione diffusa. “Kill the rich” e tutto il resto della elite, la ribellione in maschera, lo sberleffo più grande in diretta tv, la polizia che sulla targa ha come motto “Industry first”.
Oggi negli Usa stanno intensificando le misure di sicurezza per far sì che qualcuno non si faccia venire idee strane nel corso delle proiezioni (visto un funesto precedente). A dirla tutta sembra più una di quelle trovate da ufficio marketing – tipo le trovate di Hitchcock per creare l’hype intorno a Psycho – ma l’interrogativo più intrigante resta altro, le scintille saranno capaci di incendiare qualcosa anche fuori dalla sala?
Fleck è una scheggia di follia creata proprio da questa stessa visione sociale: potere e ricchezza che si accumulano nelle mani di pochi, relazioni umane sostituite da ricette mediche, lo stigma della devianza tutto scaricato sulle spalle di persone lasciate sempre più sole, che invece cercano solo “un abbraccio, un po’ di calore”. Fleck, proprio grazie alla solitudine, alla devianza e all’emarginazione assoluta riuscirà a capovolgere il tavolo, da stand alone diventerà simbolo e personaggio da riprodurre infinitamente, con maschere e trucco.
Difficile identificarsi in un personaggio così estremo, difficile anche non averne in parte compassione, in una storia dalla parte del “villain” i veri cattivi stanno altrove: nella arrogante ricchezza di Wayne Senior (in un conflitto quasi edipico), nella viscida e parassitaria comicità di Murray Franklin (De Niro, lui sì vero super cattivo in un mondo senza super eroi).
Kung Paolon