Silence – Recensione
Si può tradire ed essere fedeli, credere in un dio che permette agli uomini le peggiori infamie o negarlo di fronte alle meraviglie della natura, portare avanti una fede irrazionale o razionalmente decidere che la sopravvivenza è il primo obiettivo di chi resta unico portatore di un messaggio. Sono alcune delle riflessioni a cui spinge “Silence“, l’ultimo film di Martin Scorsese, ambientato nel Giappone medievale, dove due giovani gesuiti sono inviati – o meglio, chiedono con forza di essere inviati – per ritrovare il loro padre spirituale, che si teme abbia abiurato la fede nel cristianesimo (Liam Neeson, quasi un maestro jedi che ha ceduto alle lusinghe del “lato oscuro della forza”).
Due ore e quaranta di film, che in alcuni casi mister Scorsese avrebbe potuto anche condensare un po’, specialmente nella seconda parte, dove il tira e molla tra il monaco “difensore della fede” e l’inquisitore giapponese diventa ripetitivo. Altro dettaglio forse stonato è proprio la figura dell’inquisitore, la scelta di farne un personaggio quasi macchiettistico, con i dentoni in fuori e una fisicità da slapstick – tra il Patsy di Bonvi e Ciu Ci Ciao di Tomas Milian – alleggerisce l’impianto della storia, ma forse nei punti sbagliati, rendendola squilibrata sulla “occidentalità” del messaggio, nonostante l’autore della storia originale sia giapponese (Shūsaku Endō convertito al cattolicesimo su pressione della madre, seguace di una visione religiosa portata alla sofferenza e all’espiazione).
Tutta la carica violenta del Potere è riservata ai feudatari giapponesi, manca la presenza di una chiesa-istituzione, con il peso della scelta di credere o meno che cade tutto sulle spalle del singolo – a meno che non si tratti di contadini giapponesi che vengono massacrati comunque – e che solo in un dialogo interiore e intimo troverà sfogo.
Paolo Giannace